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II.

Quando l’ebbi davanti estivo e abbronzato che quasi non lo conoscevo, l’ansia mi si mutò in dispetto. — Non è il modo di trattare, — gli dissi. Lui rideva. — Hai litigato con Clelia? — Macché.

— Ho da fare, — diceva. — Tienimi compagnia.

Passeggiammo tutta la mattinata, discorrendo persino di politica. Doro faceva discorsi strani, diverse volte gli dissi di non alzare la voce: aveva un piglio aggressivo e sardonico che da tempo non gli avevo piú veduto. Provai a chiedergli dei fatti suoi con l’intenzione di tornare su Clelia, ma lui subito si mise a ridere e disse: — Lasciami stare la bottega. Ce ne infischiamo, mi pare — . Allora camminammo un altro poco in silenzio, e io cominciai ad aver fame e gli chiesi se accettava qualcosa.

— Tanto vale se ci sediamo, — mi disse. — Tu hai da fare?

— Dovevo partire per venire da voi.

— Allora puoi tenermi compagnia.

E si sedette per primo. Sotto l’abbronzatura girava a volte intorno gli occhi bianchi, irrequieti come quelli di un cane. Adesso che l’avevo di fronte me ne accorsi, come pure che pareva sardonico in gran parte soltanto per il contrasto dei denti con la faccia. Ma lui non mi lasciò il tempo di parlarne e disse subito:

— Quanto tempo che non siamo insieme.

Volli vedere fin dove arrivava. Ero seccato. Anzi accesi la pipa per fargli capire che avevo il tempo dalla mia. Doro tirò fuori le sue sigarette dorate, e ne accese una e mi soffiò in faccia la boccata. Tacqui, aspettando.

Ma fu soltanto col buio che si lasciò andare. A mezzodí mangiammo insieme in trattoria, affogando nel sudore; poi ritornammo


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