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che non la finanza. Le donne piú ti conoscono e piú ti cercano. Proprio come le guardie — . Giannino rise serrando le labbra, e se ne andò.
Dopo qualche minuto anche Stefano uscí nella strada. S’incamminava al Municipio per finire il pomeriggio e chieder posta, quando Giannino sbucò da una strada.
— Una parola, ingegnere.
Stefano, stupito, si fermò.
— Ho bisogno dell’opera vostra. V’intendete di case? Mio padre ha disegnato una villetta e ci ha dimenticato le scale. L’ha provveduta d’ogni cosa, anche il terrazzo, ma ci ha dimenticato le scale. V’intendete di progetti?
— Sono elettrotecnico e da un anno appena, — disse Stefano sorridendo.
— Ma via, ve ne intendete. Venite da noi. Gli darete consigli per l’illuminazione. Questa sera?
— La sera non posso — . Stefano sorrise un’altra volta.
— Già. Ma il maresciallo è amico mio. Venite...
— Meglio di no. Venite voi da me.
Tutta quella sera, Giannino sorrise in un modo sollecito e tentante, nella penombra del cortile. Non occorreva la luce per vedergli i denti chiari e sentirne la voce cortese. S’era seduto a cavalcioni della seggiola, e il contrasto con l’alone di luce della porta lo fondeva nella notte, immergendo le sue parole nei susurri e nei tonfi del mare.
— Nella stanza fa caldo e c’è odore, — diceva Stefano. — Ho conservato le abitudini del carcere. Non ci si può affezionare a una cella. Non si può farsene una camera.
— Quella luce dal soffitto vi deve toglier gli occhi: è troppo cruda. Sarebbe meglio una candela.
Nella stanza, sopra una cassa, s’intravedeva la valigia non ancora disfatta.
— Sempre pronto per ripartire? — aveva detto Giannino dalla soglia.
— È lí per scongiuro. Può arrivare anche domani l’ordine di trasferirmi. Come ci si volta nel letto. Prigione o confino, non è mica star chiusi: è dipendere da un foglio di carta.
Seduti a fronte, si guardavano. Il mare sciacquava. Stefano sorrise.
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