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Nessuno si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell’osteria, fra i visi cordiali o intenti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo lasciava frequentare l’osteria, non sapeva che Stefano a ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa.

Gaetano lo salutava ogni mattino, sornione. Quegli occhi furbi e quella bocca scema si animavano, vedendo Stefano. Gaetano preferiva non giocare, ma discorrere con Stefano, tutto il crocchio pendendo dalle loro labbra. Gaetano era stato in Alta Italia, due anni prima, da sergente.

Gli altri erano secchi e bruni, pronti a interessarsi e sorridere d’approvazione se Stefano anche solo col tono della voce scherzava. Ce n’era uno, calvo ma giovane, che si allargava davanti il giornale e scorreva le grandi pagine dall’alto in basso, adocchiando gli astanti, parlando adagio. Una sua bimbetta veniva ogni tanto a fargli commissioni da parte della moglie che stava al banco di una loro piccola drogheria. Il padre rispondeva con voce irritata; la bambina usciva di corsa; e Stefano, che le prime volte ascoltava sorpreso, si vedeva fissato dall’uomo calvo con un sorriso quasi di scusa. Come tutti i sorrisi di quella gente, anche quello del calvo Vincenzo era discreto e dolce: usciva dagli occhi scuri pieno di sollecitudine.


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