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meridiano. Venivano momenti che il silenzio bruciante sgomentava Stefano; e allora egli si scuoteva e saltava dal letto in calzoncini. Cosí aveva fatto nel carcere, in lontani pomeriggi. La stanza dal tetto a terrazzo era un gran bagno di sudore, e Stefano si faceva alla bassa finestra dove il muro gettava un po’ di ombra e l’anfora di terra si rinfrescava. Stefano ne stringeva con le mani i fianchi svelti e umidicci, e sollevandola di peso se la portava alle labbra. Scendeva con l’acqua un sapore terroso, aspro contro i denti, che Stefano godeva piú dell’acqua e gli pareva il sapore stesso dell’anfora. C’era dentro qualcosa di caprigno, selvatico e insieme dolcissimo, che ricordava il colore dei gerani.

Anche la donna scalza, come tutto il paese, andava ad attinger acqua con un’anfora come quella. La portava poggiata obliqua sul fianco, abbandonandosi sulle caviglie. Tutte queste anfore erano dolci e allungate, d’un colore tra il bruno e il carnicino, qualcuna piú pallida. Quella di Stefano era lievemente rosata, come una guancia esotica.

Soltanto per quest’anfora, Stefano era grato alla sua padrona di casa. La vecchia — una donna grassa che si muoveva a fatica — stava seduta in un suo negozietto sullo stradale e gli mandava qualche volta un ragazzino a portargli l’acqua. Qualche volta mandava pure a rifargli la camera: scopavano, rimboccavano il letto, lavavano qualcosa. Ciò avveniva di mattina, quando Stefano era fuori.

La gioia di riavere una porta da chiudere e aprire, degli oggetti da ordinare, un tavolino e una penna — ch’era tutta la gioia della sua libertà — , gli era durata a lungo, come una convalescenza, umile come una convalescenza. Stefano ne sentí presto la precarietà, quando le scoperte ridivennero abitudini; ma vivendo quasi sempre fuori, come faceva, riservò per la sera e la notte il suo senso d’angoscia.

La sera, venne qualche rara volta un carabiniere a controllare se era in casa. Dopo il tramonto e prima dell’alba Stefano non doveva uscire. Il carabiniere si fermava laconico sulla porta, nell’alone di luce, accennava un saluto, e se ne andava. Un compagno lo attendeva nell’ombra col moschetto a tracolla. Una volta venne anche il maresciallo, con stivali e mantellina, di passaggio per qualche perlustrazione. Intrattenne Stefano sulla soglia, esaminando divertito l’interno della stanza. Stefano si vergognò per tutti i cartocci ammonticchiati in un angolo, le cassette, il disordine e il


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