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che tutta la notte ascoltarono i ringhi e i ruggiti, distesi nei mantelli sulla spiaggia del mare. E poi che, apparso il giorno, videro di là dalla selva levarsi una spira e che gridarono di gioia, riconoscendo la patria e le case. Queste cose mi disse sorridendo — come sorridono gli uomini — seduto al mio fianco davanti al camino. Disse che voleva scordarsi chi ero e dov’era, e quella sera mi chiamò Penelope.

leucotea   O Circe, cosí sciocco è stato?

circe   Leucina, anch’io fui sciocca e gli dissi di piangere.

leucotea   Figúrati.

circe   No, che non pianse. Sapeva che Circe ama le bestie, che non piangono. Pianse piú tardi, pianse il giorno che gli dissi il lungo viaggio che restava e la discesa nell’Averno e il buio pesto dell’Oceano. Questo pianto che pulisce lo sguardo e dà forza, lo capisco anch’io Circe. Ma quella sera mi parlò — ridendo ambiguo — della sua infanzia e del destino, e mi chiese di me. Ridendo parlava, capisci.

leucotea   Non capisco.

circe   Ridendo. Con la bocca e la voce. Ma gli occhi pieni di ricordi. E poi mi disse di cantare. E cantando mi misi al telaio e la mia voce rauca la feci voce della casa e dell’infanzia, la raddolcii, gli fui Penelope. Si prese il capo tra le mani.

leucotea   Chi rideva alla fine?

circe   Nessuno, Leucò. Anch’io quella sera fui mortale. Ebbi un nome: Penelope. Quella fu l’unica volta che senza sorridere fissai in faccia la mia sorte e abbassai gli occhi.

leucotea   E quest’uomo amava un cane?

circe   Un cane, una donna, suo figlio, e una nave per correre il mare. E il ritorno innumerevole dei giorni non gli