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168 | parte prima |
Anche qui s’improvvisò una barella, sulla quale adagiammo il caro morente; e quattro di noi ce lo caricammo alla meglio in ispalla. Eravamo in sei o sette; così che si potè darci il cambio lungo la via, sostando a tratti, per concedere a lui, e a noi, un po’ di respiro. Indi ci dirigemmo — muto, triste corteo notturno — verso Rivoltella.
La ragione per la quale ci si decise di portare il ferito così lontano, si fu perchè non fidavamo troppo in una medicatura improvvisata, senza comodità, e fatta sul posto. E che fosse giustificato il nostro dubbio, venne a provarlo il fatto, che, trovato lungo la via un medico occupato ad amputare una gamba, e pregatolo poi di medicare il nostro ferito, esso lo curò alla meglio, dicendo che sarebbe occorso di estrargli la palla che aveva in bocca.... Anzi tentò di farlo... senza avvedersi, nella fretta, che la palla che cercava era uscita di dietro, per la nuca!
Stanchi, dunque, assetati e affamati, si riprese, barella in ispalla, la via per Rivoltella. Vi arrivammo ch’era già notte alta. Costì ci vennero incontro tre ufficiali del Reggimento Cavalleggeri Saluzzo — l’antico e valoroso Saluzzo. — Uno di questi era il genovese marchese Spinola, capitano; l’altro il conte Balbo, luogotenente; il terzo, il sottotenente Giovanni Govone, fratello del caduto a Montebello, del quale parliamo più avanti.
Offerto il proprio letto da una buona creatura del paese, spogliammo, e a fatica vi coricammo in quello il Franchelli. Esso ormai non parlava più. Affidato agli ufficiali di Saluzzo anche quel resto di vita, uscimmo col cuore stretto, a testa bassa, per far ritorno a S. Martino, dove il reggimento Monferrato doveva intanto essersi accampato.
Ma lo stomaco umano ha anch’egli le sue inesorabili necessità. Affamati, come eravamo, per aver digiunato dal gammellino di Desenzano in poi, il più previdente di noi — se non erro l’Ernesto Turati — pensando al vecchio proverbio che sacco vuoto non istà in piedi, adocchiata una specie di osteria lì presso, pensò di vedere se vi si potesse mangiare un boccone — non fosse che un pezzo di pane, o una fetta di polenta, magari senza companatico. Perocchè noi, in quel momento, cogli occhi dello stomaco, sognavamo una bella polentata fumante, come forse gli ebrei nel deserto non sognavano fioccasse dal cielo la manna della leggenda; e ci preparavamo di fare, a quella desiderata, l’onore che si sarebbe fatto, in altri momenti, a una pollanca all’Enrico IV, a un faisan truffè, a un patè de foie-gras, o a una timballe de veau à la Tayllerand.
E la polenta c’era; e c’era anche il suo companatico!
Ma la gioia dei mortali è un fumo passeggero. Colui che scrive, di quel Luculliano banchetto non potè godere; perocchè, proprio nel tempo che