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128 | parte prima |
Passarono ormai più di quarant’anni, e tuttavia mi pare di sentire quel sudore freddo che allora mi bagnò la fronte; e tuttavia mi pare di vederli, colla coda dell’occhio, i miei vicini di gomito, pallidi, commossi, sempre immobili, colla testa ancor più alta di prima, ma col respiro affannoso, ma collo sguardo di fiamma....
Che scuola, che disciplina, il santo amor della patria!
Se non che, anco lui, il capitano, a un tratto parve scosso, pentito, esitante.... Ci guardò a lungo, chiuse il libro e non vi lesse più avanti.
E da quel giorno, venne invece costantemente ad insegnarci con sollecitudine paterna, certe famose puntate di sciabola di sua invenzione, cui egli teneva in modo speciale.
Cotesta manovra, a sistema di puntate, era per l’appunto l’antitesi dell’altra delle sciabolate usata dagli austriaci: ed ecco in che cosa consisteva.
Facendoci eseguire tale manovra da piedi, il capitano Avogadro, immedesimato, convinto dell’effetto sicuro della sua trovata, allargava le gambe ad arco, nella posizione di soldato a cavallo: e lì, sguainata la sciabola, come se avesse di fronte un ulano, partiva a fondo con una di quelle botte dritte, le quali non vi lasciano il tempo di dire nemmeno: Gesummaria! E accompagnando i movimenti coi comandi:
— Un.... doi.... tre!... E l’è lon li a fè!
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Sul colle di S. Martino, Gerolamo Avogadro, ebbe modo di convincersi che le sue lezioni non erano state buttate.
Là, sul campo seminato di morti e di feriti, quando dopo le cariche, venne il valoroso a stringerci la mano come si fa tra uguali, egli stesso, rammentando, forse con dolore, quella famosa lettura di Vigevano, egli stesso ci chiese sorridendo:
— Ragazzi!... quei due articoli.... quel furto.... quella diserzione, me li avete perdonati?