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126 | parte prima |
Ci trovammo in una diecina di amici, scappati da Milano senza esserci data la posta. Che in que’ giorni erano inutili tanti discorsi.... l’anima parlava!
Quasi tutti milanesi: l’Ernesto Turati, i due Majnoni, l’Esengrini, il Mazzoni, Augusto Verga, il Fadini, il Radaelli, il Nava, il Rosales, colui che scrive, e qualche altro di cui ci sfugge il nome, o che come il Ranci, il Castelli, il Durini, il Donadeo e il Beretta, vennero più tardi.
Eppure quella istruzione data, come chi dicesse a vapore, era una faccenda grossa assai, per chi fino a ieri, aveva fatto tutto l’opposto!
Ed io lo vedo ancora là, vivo, parlante, in mezzo al maneggio, quel bravo capitano Avogadro — il prode di S. Martino — con la sua terribile frusta in pugno, tutto inteso a farci trottare e galoppare come anime dannate, schioccandocela alle spalle.... molto rasente alle medesime.... e correrci dietro urlando:
— Serrati i ginocchi!... Gomiti al corpo!... Basse le mani!... Alta la testa!... Fermi in sella, perdio!...
E mentre noi, qual più qual meno, squilibrati da tutte le parti, si taglierinava ch’era una pietà di Dio, canzonarci gridando:
— Mo’ bravi!... Mo’ belli!... Guardali lì!... Ed è a cotesto modo che pretendono di fare l’Italia!...
E qui: Cicc... ciacc... frustate, anima mia!