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dall’iliade di omero | 35 |
la vendetta
“Grande noi gloria ottenemmo, uccidemmo noi Ettore divo,
quello cui nella città, come a dio, si facevano voti!„
Disse, ed un’opera indegna pensava contro Ettore divo:
dietro, i due nervi forò dell’un piede e dell’altro, alla nocca
giù dal calcagno, e le briglie di cuoio infilava nel foro:
poi lo legò dal sedile e lasciò trascicarsi la testa:
quindi sul carro salì, tirò su l’armatura famosa;
quindi sferzò per la corsa, e i cavalli volarono pronti.
Un polverone egli, tratto per terra, levava, e la chioma
bruna dai lati del capo spandevasi, e il capo era tutto
tra il polverìo; già sì bello! ma or l’avea dato ai nemici
Giove, che lo malmenassero, oh! nella sua terra nativa.
Dunque il suo capo era tutto di polvere brutto; e sua madre
là si strappava i capelli ed il morbido velo gittò via
lungi da sè e sì, pianse e strillò, come vide suo figlio!
Ed ululò flebilmente suo padre, e dattorno le genti
per la città ripetevano l’ululo tutte e lo strillo.
il lamento del padre e della madre
Era davvero così come se Ilio, la ricca di poggi,
tutta tra nubi di fumo, cadesse dall’alto nel fuoco.
Gli uomini a stento tenevano il vecchio smarrito dal pianto,
che smaniava d’uscir dalle porte Dardanidi, e tutti,
tutti pregava con umili detti, carponi nel fango,
tutti per nome chiamando quegli uomini ad uno per uno:
“Fatevi, cari, da parte, lasciate, per quanto dolenti,
ch’esca soletto da Troia, che vada alle navi nemiche: