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Proemio


Questa traduzione d’un centinaio di versi della Batracomiomachia è in luogo d’un lavoro più serio; ma non compiuto. Negli esami della mia traduzione si conservano le θέσεις al loro posto. Che con ciò siano piuttosto un poco somiglianti, che uguali a quegli antichi, è chiaro: noi non s’ha quantità, tale almeno da poterla misurare. Hanno peraltro la monotonia epica; essendo tutti uguali di sillabe e d’accenti, ma anche un certo balzellare di tre in tre sillabe fastidioso anzi che no. Questo saltabeccamento poi non dispiacerebbe, in cosiffatta parodia ranocchiesca, unito a quella gravità, se il traduttore avesse del garbo.

Quanto a cesure, poche pentemimeri, molte trocaiche, qualche eftemimeri, al contrasto de’ latini. Qualche volta il verso ha la sosta dopo l’intiero terzo dattilo, e allora si divide in due emistichi, l’uno di 9 sillabe ma sdrucciolo, l’altro di 8 e piano, in due versi ottonari insomma, ma senza gli accenti sulla terza.

Ora, o io m’inganno, o credo che tali versi, se si facessero sempre a un modo, potrebbero pretendere d’essere buoni alla narrazione poetica, press’appoco, come i tetrametri trocaici col fare dinoccolato che hanno ne’ romanzi spagnuoli.

Licenze, non me ne sono prese molte: ho solo battuto in qualche particella proclitica, e sorvolato su sillabe toniche, in modo pes. di fare di — e così — un dattilo, ma ciò si vede anche nei versi nostrani. Ho evitato quasi sempre gli spondei, che non se ne può fare che non siano trochei e giambi; ma non ho saputo evitare la durezza e l’asprezza, che nasce, quando all’accento ritmico si fa fare de’ salti sopra a gineprai di consonanti.

Ho imparato e concluso una cosa sola, ma importante: che stante l’impossibilità di fare versi uguali ai quantitativi con una lingua che non ha quantità metrica; e la necessità di farli invece secondo una certa somiglianza agli antichi e ai moderni