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la poesia lirica in roma 63

Quivi garzoni e donzelle dotate con mandre di bovi,
l’uno le mani nel carpo dell’altro danzavano in volta:
l’une vestivano drappi sottili, di lino; ma gli altri
vesti dal morbido ordito, ancor lustre dell’olio del filo.
L’une le belle ghirlande sul capo; ma gli altri le spade
d’oro, portavano al fianco, sospese a pendagli d’argento.
Ora correvano via con lor maestrevoli piedi
agevolmente così, come quando adattata la ruota
tra le sue palme, seduto, il vasaio la tenta, se corra:
or ricorrevano gli uni, alla fila, all’incontro degli altri.
Ed assisteva gran gente all’amabile coro, godendo,
mentre nel mezzo battea la cadenza il divino cantore,
sopra la cetra, cantando, e così due giullari tra loro
gesticolavano in mezzo secondo la mossa del canto1.

Così la poesia epica parlava della lirica, che viveva accanto ad essa ora dilettando il pastore solitario, ora secondando i vendemmiatori, presente a nozze e funerali, accompagnando la spola della tessitrice, consolando il bambino dell’esser nato. Solo però quando l’epos cessò di fiorire, quando fu mietuta quella messe e portato via quel raccolto, la lirica germinò, per così dire, nella maggese di quello, profittando della sua lingua, dei suoi modi e motivi.

L’epos, anzi, aveva intelaiato nella sua cornice qualche canto lirico, come preghiere e giuramenti, come threnoi, come descrizioni ed osservazioni naturali. Una preghiera2:

«Odimi, o Arco-d’argento, che intorno sei visto di Chryse,
come di Cilla la sacra; che Tenedo regni e proteggi;
ch’hai le saette che liberano! se ti feci un bel tempio

  1. ib. 593.
  2. A 37