Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
a giuseppe chiarini | 409 |
Ma noi questa licenza, necessaria, secondo il Geibel, ai tedeschi, non ce la prenderemo. Siamo, o nostro grande Teodoro Mommsen, divenuti ricchi... di spondei. Altro che qualche spondeo, come ho detto più su! Ne abbiamo troppi, tanto che ci occorre di chiedere, al contrario dei tedeschi, venia di usarne a volte per trochei. Valga il vero. L’iniziale d’amare sarebbe lunga anch’essa. Ne ho la riprova in queste campagne. Qui la proclitica la (art. femm.) suona le. Si dice le Chiara, le terra e via. E così dicono e scrivono, gl’ingenui scrittori, le Mabile, invece che l’Amabile, come direbbero le Merica, e non l’America. Perchè mai le Mabile? Per la stessa ragione che in Toscana e altrove si dice il moroso e non l’amoroso. Il verbo amo è poco usato nei vernacoli nel suo senso più bello: è usato amore sì, ma l’a in amore è protonico. Per dire io t’amo, nei nostri vernacoli, si dice «ti voglio bene!» E così quell’a sì in Amabile (nome proprio) e sì in amoroso (nome comune, e come!) non si regge e sparisce. L’idea è affidata alla seconda sillaba di amore e non più alla prima. Ma nel linguaggio comune o aulico anche amo esiste e vive una vita rigogliosa. E dunque noi dicendo amare e amata e amerò, dobbiamo accentare fortemente quell’a che la fonetica popolare e, dirò così, naturale, tende a rapirci.
La lunghezza delle metatoniche è originata dallo sforzo che noi dobbiamo fare per pronunziarle; necessario sforzo; perchè se non lo facciamo, non siamo intesi. E pur essendo uno sforzo, non è contro la natura del linguaggio nostro. Noi invero vediamo