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nelle parole gennaio, smeraldo, soddisfarò, lucertola, gherofano; amerò, porcheria, canerino, Margherita; così l’e in sicuro, midolla, finestra, nipote, signore; così l’i in meraviglia o maraviglia, lenzuolo, dovizie, suggello, indovinare; così l’o in pulire, ubbidire, budello, fucile; così l’u in ginepro, ortica, coniglio; così l’y in zampogna; così l’au in Agosto, Agusto, ascoltare, udire, uccello. Bene: questo mutarsi è certo generato da un affievolimento dell’intensione della mente e quindi della voce su quella sillaba che si muta.

Tanto è vero che dove l’intensione è tenuta fissa per qualche motivo, la vocale non si cambia. Quale questo motivo? La coscienza della legittimità di quel suono; e tale coscienza è data, quasi sempre o sempre dalla conoscenza dell’etimo della parola: conoscenza perfetta o imperfetta, giusta o errata. Perchè questa conoscenza sia nel popolo, occorre che viva la parola più breve e semplice dalla quale l’altra è derivata. Così i parlanti, presso cui vive la forma canario, e quelli che, pur senz’essa forma, sanno che quell’uccellino venne dalle Canarie, diranno canarino e non canerino. Ora io dico che le vocali che si conservano intatte nelle sedi avanti l’accento principale, sono enunziate con più vigore; cioè con un accento secondario. Per esempio; il superlativo di buono, è bonissimo, in cui l’o suona stretto, come sempre nelle atone. Bene: il superlativo noi italiani lo facciamo e assegnamo per solito senza coscienza di accrescere il valore dell’idea rappresentata dall’aggettivo semplice. Sto per dire che velandosi il suono della radicale per via di quell’ issimo aggiunto, si affievolisce nel tempo stesso anche