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a giuseppe chiarini 383

gere quei.... come s’ha dire? Versi, no, prosa, nemmeno Forse l’uno e l’altro?

Si tolgano anche le differenze di stile; si metta qua cavallo o là destriero, e le parole si collochino nello stesso ordine qua e là, diretto o inverso: resti per altro la disposizione là in scrittura continuata, e qui in linee non condotte al fine; e noi proveremo sempre un sentimento ben diverso nel leggere, impreparati e inconsapevoli, quella prosa e questa.... poesia? Non poesia, e nemmeno prosa. Che cosa dunque? Sotto gli occhi è la prosa; ma se la leggiamo, questa prosa, in quelle linee disuguali, ecco agli orecchi dell’anima risonare il verso. C’è insomma una doppia misura, per l’orecchio del corpo e per quello dell’anima, presente e assente, diretta e riflessa. E che questa doppia misura sia come in quelle stupende traduzioni del Tommaseo dall’illirico e dal greco, così in altre d’altri, non è certo un inganno del mio senso: un valentuomo da quest’indefinibile effetto ricavò una sua teorica e una sua prassi di semiritmi.

Ma invero questa parola semiritmi, ch’egli creò e usò, mi pare mostri l’imperfezione e della teorica e della pratica di lui. Chè non si tratta di semiritmo, ma di doppio ritmo, come ho detto: il vicino e il lontano. Così chi ascolta di sotto l’albero, dove le passere sono venute ad albergo, sul far della sera, quand’esse prima di addormentarsi fanno le loro chiacchiere; ode un confuso frastuono di pigolii e di strilli; ma si allontani; e percepirà un suono quanto più affiochito, tanto più cadenzato. Ma questo è un paragone; e non parla esattamente. La prosa e la poesia delle passere è intesa dal medesimo