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a giuseppe chiarini | 379 |
o le pronunzi e le oda pronunziare correntemente senza quella intenzion d’accento e quel cader di pause e quell’uguaglianza d’intervalli, il caro lettore ci sentirà sempre quel ritmo di novenario: sempre, fatalmente, inesorabilmente. Non è vero? Ora, per tornare agli antichi, la coscienza ritmica si doveva svegliare più o meno facilmente, secondo i tempi. Nei tempi Enniani in cui s’aveva bisogno di far coincidere l’accento del ritmo e l’accento della parola, si vede che era più difficile; ed è naturale, perchè i versi erano meno usitati, anzi certuni si cominciavano a usare appunto allora; più facile era ai tempi Augustei, per certo. Era facile, a codesti tempi, passare da una pronunzia all’altra, e anche di sentire l’una sotto l’altra. Sicuro. Ma come: pronunziare a un modo e sentir in un altro? E che c’è di strano? Quando i ragazzi recitano a memoria, mettiamo, il Dante, e dicono con quella loro fretta di chi teme a ogni momento di dimenticarsi, per esempio, «nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura», pronunziano forse ritmicamente? pronunziano i versi come versi? pongono le «arsi» dove vanno poste? Ma noi, pure uggiti di quel precipitar di parole, sentiamo pur sempre che sono versi, e le poniamo mentalmente noi, le arsi; le facciamo noi, le pause:
nel mezzo | del cammin | di nostra | vita...
Ed ecco, per tornare onde mossi, io penso che la metrica carducciana abbia la sua base razionale e storica, perchè i suoi versi corrispondono alla pronunzia grammaticale dei versi antichi, la quale si usava, non v’ha dubbio. E corrispondono in mirabil