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a giuseppe chiarini 377

chiar forte, sostar qui e lì, che non resti oscurato il ritmo. Non è così?

In oratione le parole si pronunziavano con tutta la loro virtù ritmica e musicale, per certo, sì che poco mancava ad esserci il pollice e la tibia. Per questo certe serie di parole che pensate non avevano specie di verso, enunziate poi ad alta voce, nella lenta e spiccata cadenza dell’orazione, stupivano gli altri e magari l’oratore stesso con un improvviso andare di ritmo usitato. «Usitato» dico, e non a caso. Perchè questa è la condizione sotto la quale si avverava quello sconcio tanto segnalato dai retori. Ci voleva, perchè si avverasse, quella che io chiamerei «la coscienza ritmica».

In fatti vi erano parole, che avevano il loro ritmo ben definito: deos era un giambo, tolle era un trocheo. Ma altre no, mi pare. Reges, ad esempio, che piede formava? Uno spondeo, sì; ma equivalente a un dattilo o a un anapesto? con l’arsi sulla prima o sulla seconda? Per determinarne la pronunzia o la percezione, ci voleva quella coscienza ritmica. Ci voleva che l’oratore, poniamo il caso, nell’arringare fosse trascinato, a porre l’arsi sulla prima o sulla seconda, dal movimento per così dire, delle parole che precedevano o seguivano. Ci voleva che l’ascoltatore percepisse quel movimento come di serie a lui familiare.

Prendiamo un esempio. Gli Annali di Tacito cominciano appunto con sei parole che costituiscono un esametro. Sono: Urbem Romam a principio reges habuere. Ho detto, costituiscono; ma avrei dovuto dire, costituirebbero. In vero, perchè facciano un verso, bisogna pronunziare reges anape-