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a giuseppe chiarini | 373 |
Non a tutti nè subito riusciva di pronunziare ritmicamente un verso: non bastava l’orecchio, ci voleva spesso anche il dito: digitis callemus et aure1. E tale pronunzia era a mo’ di canto, e non nei soli complicati ritmi dei lirici era necessario osservare la battuta del pollice del maestro2. Senza la musica Cicerone afferma essere prosa a dirittura a poesia dei poeti per eccellenza3. E Plinio il giovane affermava che tal poesia voleva non un lettore, ma il coro e la lira: che non si sentiva insomma alla lettura4. Con la conveniente proporzione, ciò doveva avverarsi in qualunque verso. Come p. e. pronunziare a modo, così senz’altro, Exclusit revocat redeam non; che abbiamo visto costituire i primi quattro piedi, in Terenzio, d’un senario, in Orazio, d’un esametro?
In qualunque verso ciò accadeva; e perciò in quelli che dovevano o servire al doppio uso del canto e della recitazione, o servire ormai solo a essere recitati o solo anche letti (intendo, con gli occhi), in quelli si curò amorosamente anche il ritmo, dirò così, grammaticale, in modo che essi sonassero bene anche letti senza la pronunzia musicale. Orazio stesso che ci ha pòrto la riprova, che la pronunzia dei versi presso i latini era doppia, col fatto che egli si studi
- ↑ Hor. AP. 274.
- ↑ Hor. C. IV 6, 36: pollicis ictum. Cfr. Quint. IX 4, 51: ῏῏tempora etiam animo metiuntur et pedum et digitorum ictu intervalla signant quibusdam notis.῏῏
- ↑ Cic. Or. 55: A modis quibusdam cantu remoto, soluta esse videtur oratio; maximeque id in optimo quoque poetarum, qui῏῏ λυρικοὶ ῏῏a Graecis nominantur: quos cum antu spoliaveris, nuda paene remanet oratio.
- ↑ Plin. Ep. VII 17.