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a giuseppe chiarini 371

rus1. Or tutta la stupenda bravura del Venusino sta, per rispetto alla versificazione, in questo che, appropriandosi il tipo Luciliano di verso, duro, sciatto, sgangherato, lo maneggia in modo da dissimulare, con accavallamenti, con fermate a mezzo verso, con sinalefi frequenti, con cesure mediante tmesi, con finali in monosillabi, proclitici o accentati etc. etc., il ritmo, che a quando a quando viene a galla, come dopo un tacito notare sott’acqua, con una sonante conchiusione. Ora prendiamo uno di questi versi volutamente Luciliani: per es.

exclusus qui distat, agit ubi secum, eat an non2.

È un verso, se lo consideriamo e pronunziamo ritmicamente, dall’andar possente, con tre pause, dopo exclusus, dopo agit, e in fine, e quella dopo agit così marcata da allungare la sillaba breve. Ma se non è passibile che della pronunzia ritmica,

éxclusús || qui distat, agít || ubi sécum eat án non,

in che differisce dai più bei versi di Omero e di Virgilio? dove è l’effetto cercato dal poeta, di parlare come tutti parlano, e farne uscire, come per sorpresa, un verso eroico? Mettiamo a confronto, della medesima satira, due passi (si potrebbe di più) in cui i senari di Terenzio sono trasformati, con bel garbo di giocoliere, in esametri.

Exclusit: revocat: redeam? non si me obsecret.

dice Fedria in Terenzio; e in Orazio:

  1. Hor. Serm. I 4, 58 e 48.
  2. Serm. II 3,260.