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a giuseppe chiarini 369

omeoteleuti della terza specie? No. Essi sono frequentissimi. Segno dunque che quell’omeoteleuto piaceva. Ma la rarità delle consonanze della prima specie ci persuade che invece tra le due parti del verso la consonanza non piaceva, se non per eccezione. Dunque bisogna dire che quelli omeoteleuti tra i due emistichi del pentametro sono così frequenti, perchè la pronunzia grammaticale li velava, sì che quella consonanza non era avvertita più che negli esametri conclusi, nel primo e secondo emistichio, da aggettivo e sostantivo concordati. Ed è forza affermare perciò che coesistevano le due pronunzie: la comune e la ritmica.

Che se fosse esistita solo quest’ultima, i poeti latini avrebbero nel pentametro evitato quell’omeoteleuto, che invece tanto usarono; l’avrebbero evitato, come nell’esametro scansarono quella perfetta rima di durescit e liquescit e quella imperfetta di velatarum e antemnarum, e simili; rima che pare poetae ludentis più che altro, specialmente nell’esempio animorum annorum suorum di Ovidio che da tali scherzi non era davvero alieno.

Il qual Ovidio si riferisce certamente a una lettura anche grammaticale con la composizione schematica dei suoi versi; composizione che volle dilettevole anche così, senza il pollice del maestro. Ciò ottenne con l’uniformità, scansando le elisioni, prediligendo nell’esametro la cesura semiquinaria, amando nei due versi dell’elego una parola iniziale con l’accento sulla prima (per lo più dattilo), facendo che le quattro cadenze d’un distico fossero costituite da quattro parole parossitone, così: