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quelli che spessoe a lui e agli altri in oratione sfuggivano? Ecco: ripeto che la conclusione non va presa rigorosamente; ma sarebbe questa: che ai suoi tempi si percepiva più facilmente un verso con urto tra arsi e accento grammaticale, che un altro con accordo. Ma in oratione, ripeto.

E questo sarebbe un indizio che l’accento primitivo melodico, almeno in oratione, si faceva sentire a’ suoi tempi. Meno, dunque, ai tempi di Plauto (chè non voglio dire che punto) si faceva sentire, e più ai tempi di Cicerone.

Ennio, poco dopo l’introduzione in Roma di quei senarii, introduceva l’esametro. Il suo versus longus è, si può dire, perfetto. Non c’è, si può dire, nei grandi poeti di Roma bello schema d’esametro, di cui non fosse il modello in Ennio. Ma egli aveva anche schemi meno belli, che i grandi poeti lasciarono a lui.

Ce n’era, di versi mal congegnati, nel vecchio Ennio! Tutti ricordano quell’esametro disarticolato, cui Lucilio derideva:

          sparsis hastis longis campus splendet et horret.

Manca in esso ogni cesura; di più le arsi coincidono con l’accento grammaticale. Ora di versi così fatti, che pur avendo cesura, hanno o per tutto o quasi per tutto questa coincidenza, ne troviamo, nei versi rimasti, più di uno e più di due, specialmente in passi lunghi. Nel sogno d’Ilia (36-52 Vahlen):

          vires vitaque corpus meum nunc deserit omne.
          tardaque vestigare et quaerere te neque posse
          corde capessere: semita nulla viam stabilibat.
          exim compellare pater me voce videtur.