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a giuseppe chiarini 361

e verso1. Perchè mai? Per la somiglianza col parlare usuale (sermonis). Certo è bene che questi medesimi versi, se li avesse uditi ad tibiam, li avrebbe forse chiamati tam bonos come quei lugubri settenari:

Mater, te appello, quae curam somno suspensam levas,

di cui parla altrove2. Recitati così, senza musica, gli parevano adunque abiecti, cascanti. Ma Cicerone medesimo osserva che all’oratore sfuggivano sovente senari e ipponattei; e aggiunge che l’uditore li riconosceva subito. L’uditore li riconosceva subito, perchè usitatissimi, e li percepiva perchè (aggiungo io), per quanto potessero essere abiecti come quelli dei comici, tuttavia non avevano similitudinem sermonis. Come mai? Così: Cicerone dice: versus saepe in oratione... dicimus: era la cadenzata e misurata recitazione oratoria che li faceva percepire e perciò riconoscere. Ma ricordiamo: quei senari così abiecti erano pur di quelli nei quali i comici avevano fatto coincidere le arsi con gli accenti grammaticali. Parlo, s’intende, in generale, e per ricavare una conclusione non così rigorosa. Del resto avevano somiglianza al parlar usuale, come esso dice che questa era la ragione della loro cascaggine. Ora come Cicerone si doveva provare a ricercare il ritmo in quei senari, nei quali si poteva a fatica percepire? Con una pronunzia più spiccata, più forte, più colorita. Eppure non ve lo trovava se non a fatica! Erano fatti diversamente da

  1. Cic. Or. 55, 184.
  2. Cic. Tusc. I 44, 106-7.