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a giuseppe chiarini 347

cale che ai Greci e Romani non piaceva sentirci sempre.

Ma la teorica del Rasi non mi par giusta. L’arsi aveva la natura del nostro accento grammaticale. Nè credo occorra abbondare in dimostrazioni. Basti la chiara espressione Ciceroniana1, che il ritmo è costituito dal distinguere percotendo intervalli uguali e anche spesso disuguali: «ritmo che possiamo notare in goccie che cadono, perchè gl’intervalli sono distinti; e non in un fiume che precipita». Ora per esempio, in quei peoni primi (d’una lunga seguita da tre brevi) che poco più su riporta desinite, incipite, comprimite, ne’ quali la goccia che cade, per così dire, è il de, l’in, il com; queste sillabe sono percosse o battute, non le altre si, ci, pri, che hanno l’accento grammaticale. E quelle parole avevano o assumevano, dunque, una pronunzia più simile a quella di una nostra parola bisdrucciola, per esempio dondolano, che a quella di una sdrucciola come precipita, perchè, come ho detto, la goccia in quelle cadeva sulla prima lunga e non sulla seconda accentata, laddove nelle nostre cade dove cade l’accento. L’arsi insomma, se è ciò che in goccie che cadono fa percepire il ritmo, è simile al nostro accento che è ritmico (i glottologi dicono espiratorio-energico), non melodico.

E tanto vero è ciò, che come il nostro accento permette d’allungare la vocale su cui posa, in modo che noi possiamo, ad esempio, per qualche effetto, pronunziare questa parola, amo, con un a sesquipedale, e dire aaaamo senza che si cessi d’intendere

  1. De Or. III 48, 186; e vedi poi 47, 183.