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a giuseppe chiarini 345

Caeruleus placidis per vada serpis aquis,

non ne acquistava l’omeoteleuto, pur avendo l’ictus sulle ultime di ugual desinenza di placidis e aquis. Ora, per quanto il Rasi dica di dubitare (l’arsi.... forse consisteva), a me non riesce di spiegarmi la sua teorica se non mutando in certamente il suo forse, se non credendo che egli creda che l’arsi consistesse in una maggiore elevazione di tono; che egli creda insomma che l’ictus fosse un accento melodico, e l’anima della parola fosse invece un accento ritmico, un ictus vero e proprio.

Quali conforti porterebbe tale teorica al nostro amor proprio! Chè in vero si troverebbe che i nostri versi barbari sono più simili agli antichi, che i versi classici dei tedeschi. Come no? I versi tedeschi hanno al posto degli ictus tanti accenti grammaticali; e i nostri no, lasciano, cioè lascerebbero, qua e là libera qualche sillaba per un’arsi puramente melodica; per un’elevazione di tono, che solo i buoni lettori musici potranno fare, tal quale come solo i buoni lettori musici potevano fare nei versi antichi. Chè se gli antichi la potevano fare, come non i moderni? E questo è un punto importante. Si suol dire, e anche l’egregio Rasi dice, che certe cose noi non le sappiamo più nè le possiamo indovinare, essendosi perduto il senso di questo o quello. Or qui mi ci pare un abbaglio. S’è perduto il senso della quantità? Ma no: chi ci vieta di pronunziare, dietro la bacchetta d’un maestro se non secondo il nostro senso stesso, chi ci vieta di pronunziare, in un verso antico, le sillabe lunghe come lunghe e le brevi come brevi? nel preciso rapporto di due a