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se non volessi aggiungere che il poeta latino teneva conto anche del piacevole suono che veniva dal verso letto ad accenti.

Aggiungerei, anzi, ancora, che il poeta latino, poco dopo avere introdotti i metri greci, si occupò di renderli piacevoli all’orecchio de’ suoi cittadini curando che dessero un suono conveniente nella recitazione grammaticale, come quella che era più comune dell’altra. Ma occorre prima intenderci sull’ictus o arsi, qual valore avesse rispetto all’accento della parola nuda. Pronunziando ritmicamente un verso, le parole perdevano il loro accento grammaticale sostituendolo con l’accento ritmico; o succedeva tutt’altro?

Il nostro Pietro Rasi che ha indagato da par suo queste ed altre ragioni d’arte antica, afferma dubitativamente1 che ad ogni modo l’arsi, la quale forse consisteva soltanto in una maggiore elevazione di tono, non poteva aver l’efficacia di togliere alla parola il suo accento naturale, la sua anima, per ripetere la bella espressione di Diomede, e così nè di distruggere omeoteleuti nè di dare nascimento ad essi secondo la sillaba dove batteva il suo ictus. Così, secondo il Rasi, il verso Ovidiano,

Quot caelum stellas tot habet tua Roma puellas,

non perdeva il suo omeoteleuto con la pronunzia ritmica, ossia con l’ictus nell’ultima di stellas e nella penultima di puellas, e, per esempio, chè degli esempi ce ne sarebbe un’infinità, il pentametro Tibulliano,

  1. «P. Rasi, Dell’omeoteleuto latino, Padova, 1891».