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a giuseppe chiarini 341

si intenda che la mia impressione d’allora può essere conosciuta anche ora senza sospetto: è fresca in fatti e sincera.

Ebbene io percepiva in quelle odi due ritmi: uno proprio; uno, per così dire, riflesso. Era ciò che il poeta voleva: due ritmi. E il ritmo proprio di per sè non sarebbe stato piacevole, o almeno non così piacevole come è nei versi nostrani. Chè sebbene le serie fossero nostrane, quinari, settenari, novenari, decasillabi (una sola specie di decasillabi eccettuata), pure la successione e l’accoppiamento delle serie erano nuovi e magari discordi. Ma c’era il ritmo riflesso.

Caro maestro, sono in campagna e prendo i miei paragoni da ciò che odo qui. Cantano appunto ora, nell’appressarsi del meriggio, le cicale. Chi va sotto l’albero dove ognuna stride, percepisce delle serie disuguali, dei ritmi balzellanti, oltre che un segare, un fregare rauco e aspro, e chi anche è lontano, se si fissa col senso nei singoli suoni, sente il medesimo disordine tutto a scosse e a strascichi. Ma se astrae dai particolari; se chiude non so che finestre e apre non so che porta della sua anima; come succede da sè, a un tratto, in un soffio; allora sente uno scampanellìo continuato e cadenzato. E questa notte, caro maestro, prima che s’alzi la luna che è già all’ultimo quarto, dal monte di Tiglio, nell’oscurità della valle fitta d’alberi, udrò i ritmi barbari dei grilli che anch’essi fanno delle tirate lunghe e corte, e tutti insieme formano, come ho a dire? una fiumara argentina di suoni, con appena qualche ondulazione: una fiumara tinnula che corre nel silenzio, a prova con la fiumara scrosciante del Ser-