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gua, nella quale li diceva, era di morti, era morta; e il tema di essi era la morte, che egli seduto nel vestibolo, sentiva sentiva ventare perpetuamente dalla porta buia. Ma egli era mortale anch’esso, e un giorno gli uomini non lo videro più al suo posto. Era entrato anch’esso nella tenebra aperta, e dileguato.

Era mortale, e lo sapeva. I canti che mormorava nella sua lunga vigilia — già lunga, ora un attimo senza tempo — quei canti non accompagnavano l’interminabile processione di quei passi e stridii d’ombre; quei canti egli li diceva a sè stesso rabbrividendo al freddo di quel ventilare continuo. Povero vecchio! era un uomo anche lui, e aveva comune con noi non solo la morte, ma, sebbene custode dell’infinito, sebbene da gran tempo — un nulla, ora — seduto nel vestibolo, sebbene, seduto lì, avesse veduto tutti i suoi coetanei del mondo arrivare, entrare e dileguare; con noi aveva comune il timore della morte. E con quei canti consolava il suo timore. L’elegia, per esempio, di cui ho riferiti, traducendoli, i primi tre distici, continua così:

Ma da’ suoi vincoli alfine fuggendosi-libera via
     l’anima, subito anela, arde di andare lassù;
corre, s’accelera: è quella la meta del lungo cammino:
     ne la clemenza sua Dio còmpiami i voti che fo.
Giungere io possa nel cielo, godere de l’ultimo dono:
     la visione di Dio splenda in eterno per me!
E mi riceva nel cielo, regina del mondo, Maria,
     che tra i nemici la via, guida sicura, m’aprì
(come io temeva!) alla patria. Lassù cittadino del cielo
     già Perchè tu mi guidasti, ho tanto premio, dirò.