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comperarne una fetta. Ma io ricordo un caso in cui la poesia di questo bel prodotto della nostra Romagna esce dall’idillio ed entra nell’epopea. Ed è poesia antica e romana; d’altri tempi e d’altri uomini.

Una legione muove da Roma, presa dai Galli: si ritira, per andare a combattere ancora contro altri «hostes», Germani Pannonici Illirici. Con quella legione è l’«aeterna auctoritas» di Roma. A capo di essa è un duce «cum imperio». È l’Ultimo, questi, dei dittatori. Egli marcia tra quattro eserciti nemici e tra popolazioni che non ricordano più i fasci e le aquile e i sacri ancilii. Dalla grande repubblica in riva al Tevere, giunge a una repubblica piccola non lontana dal piccolo Rubicone. Qui le legione è sciolta. Il dittatore non accetta patti dal nemico accerchiante, e con più pochi uomini di quelli che ebbe Leonida, con un manipolo stremato de’ suoi, si sottrae; cammina tutta una notte per viottoli e dirupi; passa, vicino alle sorgenti, il Rubicone; si trova, a giorno, sui colli avanti la bella pianura che conserva il nome di Roma, solcata dai flessuosi fiumi argentei, orlata dal ceruleo Adriatico. Ha con sè, il dittatore, la sua donna. Questo è un tratto nuovo: qualche cosa di più gentile e di più eroico. La donna ha sete. Le portano un cocomero che ella taglia col suo pugnale.

Queste cose antiche avvenivano nell’estate, e precisamente il 1º agosto del 1849, cioè nelle calende sestili o auguste dell’anno «urbis conditae» duemillesimo secentesimo terzo. La donna era Anita, il dittatore Garibaldi,