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rosaio è prossimo all’indivia, l’acanto, l’edere e i mirti sono vicini al sedano e al prezzemolo! E gli viene in mente un vecchiettino della Cilicia, forse già pirata, che aveva ottenuto nelle vicinanze di Taranto una grillaia sabbiosa, non buona nè per prato nè per grano nè per viti; ma c’era l’acqua da irrigarla; e il Cilice ne aveva fatto un orto e un vivaio di piante: aveva i bei cavoli e i bei fiori, e rose e pomi, tutto meglio e tutto prima degli altri; e sapeva difendere i suoi prodotti dal freddo e dal gelo; e teneva le api, e aveva fatto bei viali di tigli di pini di olmi di peri di prugni di platani, trapiantandoli anche adulti. In questo bel passo, in cui si vede tutto l’affetto, direi quasi la nostalgia, del poeta per la campagna, Vergilio nomina al verso 121, tra l’appio e il narciso, il «cucumis»:

                              tortusque per herbam
                         cresceret in ventrem cucumis;

che il nostro Dionigi Strocchi traduce:

                                        e come il ventre
                         dell’errante cocomero s’accresca.

La pianta del «cucumis» striscia e s’attorce, e il frutto si fa tondo via via. È proprio, direi, il nostro cocomero. E del cocomero nostro direi che parlasse Properzio nella elegia seconda del libro IV, al verso 43:

               caeruleus cucumis tumidoque cucurbita ventre.

Ceruleo, invero, è il color della buccia del cocomero, specialmente per chi ricordi qual senso danno´