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relazioni sull’insegnamento del latino | 9 |
sione se non gioverebbe imporre ai professori di fare un programma bene determinato della materia che «debbono insegnare in ciascuna classe, e stabilire «che un alunno non potesse avere la idoneità ed u essere promosso, senza aver dato prova di posse«dere con sicurezza tutta la materia insegnata dal «professore. L’alunno, per essere promosso, non «dovrebbe fare neppure un errore vero e proprio. Potrebbe solo perdonarglisi qualche svista».
D’indulgenza soverchia, pur troppo, si pecca, e un po’ da per tutto; e ciò non è delle ultime cause del poco profitto nello studio, come delle altre materie, così anche del latino. Si adducono spesso, a giustificarla, ragioni speciose: il lavoro è cattivo, ma l’alunno ha studiato durante l’anno; si è confuso, si ammetta agli orali. Questa ragione di scusa dovrebbe piuttosto valere per chi si confondesse, per timidezza, agli orali, dove non c’è tempo e modo di raccogliersi e ricomporsi. Ma ci sembra che pretendere che in uno scritto non si debba trovare alcun errore vero e proprio, sia pretender troppo. Già tra questi errori e le sviste la distinzione non è facile nè sempre possibile: tra dimenticanza momentanea e ignoranza e oblio assoluto aiuta a giudicare un cenno, una scossa, una parola; non la muta carta. Si lascerebbe, a parer nostro, luogo all’arbitrio e alla disparità. E occorre invece, ciò che nè a noi nè agli scolari nè alle famiglie pare ci sia ancora, un criterio unico. Cosicchè sarebbe nei voti di tutti fissare una norma per giudicare gli alunni in modo uguale nei vari Istituti classici. Ma fondarla sul numero degli errori, non ci pare pratico se non forse nelle classi inferiori del Ginnasio, dove l’esempio