suoi, il metro che aveva in certo modo consacrato ad Augusto, e cantò il suo canto più bello. Gli anni corsi dal 730 erano stati di pace quasi al tutto, se non di felicità. Nel 731 Augusto si era veduto rapire nel fiore degli anni e delle speranze Marcello, il nepote e genero. Ma un grande successo aveva avuto il principe: nel 734 Phrahates aveva rimandato le insegne di Crasso. Questo fatto poteva compensare la iattura dell’erede. L’anno dopo moriva Vergilio, lasciando incompiuto il poema della gente Iulia e di Roma; mentre la gloria di Augusto era al suo colmo. Egli promulgò nel 736 la legge suntuaria, quella sui costumi e sui maritaggi. Così preparava la città e il mondo alle feste secolari. E l’inno del poeta fu pari alla grande occasione. Sembra, in certo modo, come la sintesi dell’azione Augustea, così il riașsunto dell’opera del vate; di due vati, anzi. Orazio fa sentire, in questo giorno solenne, anche la voce dell’amico estinto, di Vergilio il cantore eroico di Aenea che pietate insignis et armis raffigura Augusto, ed è vero fondatore di Roma e il capostipite della gens Iulia. La parte centrale dell’inno è l’argomento e l’intenzione dell’Aeneide. E due strofe prima è il ricordo delle Georgiche. Nel resto tutte le odi, dirò così, pubbliche di Orazio come vates, hanno il loro compimento. Egli aveva temuto lo spopolamento di Roma, aveva paventata la degenerazione, aveva preveduta la vittoria dei barbari, rattenuti solo dal mare, non ostante il mare Latio inminentis: ora l’Urbe aveva larga promessa di Quiriti, rifiorivano i costumi, i nemici erano vinti e alcuni senza spargimento di sangue, con più sicuro effetto di pace, poichè il sangue fermenta la ven-