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la poesia lirica in roma 165

tu senz’ira, senza guastarmi i redi
                         piccoli, passa;
se un capretto nato nell’anno uccido,
se il boccale empisco per te del vino
ch’è compagno a Venere, e l’ara antica
                         fuma d’incenso.
Tutto il branco è là nella piana e ruzza,
per la festa tua decembrina, e torno
torno ha scioperio con gli sfaccendati
                         bovi il villaggio.
Erra tra gli agnelli sicuri il lupo; ed
ogni selva sparge per te le foglie e,
con un odio allegro, il villan la terra
                         picchia in tre tempi.

Conobbe il poeta tra quelle ridde o vide alla fonte la contadinella Phidyle, tutta economia e religione? «Non importa», egli le dice, «pensare a vittime, che sono fatte per i ricchi: una ghirlanda di rosmarino e mortella, un poco di mola salsa, che scoppietta nel focolare, una preghiera al nascere della luna e la tua fede innocente, basteranno a disperdere, o Phidyle, o piccola massaia, le tue piccole disgrazie». La pietà e la bontà è tutto: non fu per essa salvo il poeta da un grosso lupo che incontrò errando per i monti? E un’altra volta corse pericolo d’essere schiacciato da un albero. Quell’albero era stato piantato in un giorno in cui la religione vietava il lavoro, dalla mano d’un malvagio: onde la pena doveva ricadérne sui nepoti, se non sul poeta innocente. Il quale, ogni anno, nel dì anniversario del pericolo mortale, ossia nel Calendimarzo festeggiava la sua salvazione con un sacro banchetto1. Profondo in Orazio è il sentimento

  1. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, VII. In campagna.