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vitandolo ad andare da lui: «voglio che apprenda certe fantasie d’un grande amico suo e mio». Pare che si tratti dell’Attis, che Catullo vuol leggergli e forse dedicargli. Ma il papyrus è molto oscuro1. In tanto il poeta era preso di un’Aufilena che presto conobbe valer molto poco, sebbene gli paresse prima più cara degli occhi suoi.
Tornò a Roma poco dopo. Era ancor fresco del ritorno dal viaggio Bithynico, quando Varo, forse il Quintilio Varo che conosciamo, lo condusse a vedere la sua amica, una donnetta assai spiritosa e graziosa. Si chiacchierò del più e del meno; in fine il discorso cadde sulla Bithynia e sui grandi guadagni che Catullo vi doveva aver fatto. «Con quel pretore? nemmeno un po’ di balsamo per i capelli». «Però hai comprato certo dei lecticarii, che là fanno robusti molto». Catullo, per darsi un poco d’aria, «Oh! di codesti, la provincia non era così cattiva che io non potessi provvedermene otto e ben portanti». La donnetta allora: «Di grazia, Catullo mio, prestameli per oggi: voglio andare al tempio di Serapis». E Catullo: «Ecco, di codesto che dicevo d’avere, non ricordavo più come stesse la cosa. Gli otto lecticarii ci sono; ma sono dell’amico Cinna. Ma, miei o suoi, è lo stesso». È un mimo narrato, tutta grazia e naturalezza2. In tanto il suo compagno di viaggio, C. Helvio Cinna, pubblicava la tanto limata e attesa Zmyrna. Catullo annunzia la preziosa operetta lodandola per ciò che si poteva deridere o biasimare in essa, cioè la lunga