toso il nostro poeta, che un bel giorno rivolge alla sua donna un rimprovero velato, lodando la sincerità del proprio amore, la propria fedeltà, tacendo di lei. Ella non intende. Il poeta si spiega meglio: «Tu hai promesso e giurato, e io ti ho amato con la passione dell’amante e con la tenerezza d’un padre. Ora ti conosco. La passione è più ardente, ma non ti stimo più». Ella non si commuove. «Vedi lo stato della mia anima: non ti posso voler bene più, nemmeno se tu divenga la più pudica delle donne, non posso cessar d’amarti, nemmeno se tu ti riduca delle donne la più trista»1. Amarla, dunque, sempre. E allora si volge contro i rivali, giovani eleganti, vanitosi, nulli, e, come a lui pareva, intinti chi di questa chi di quella pece. Si leva di tra i piedi un Ravido, che, nel corteggiare Lesbia e provocare Catullo, cercava soltanto di far parlare di sè. Assale fieramente coi coliambi hipponactei tutta una compagnia che frequentava la nona taberna della via tabernae veteres. Tra loro si pompeggia Egnatio, un Celtibero barbatulus, che ride sempre per mostrare i denti bianchi. Ride al tribunale, ride ai funerali, nel momento più commovente dell’orazione e della sepoltura. Volete sapere (vuol sapere Lesbia? par che dica) perchè ha i denti così bianchi? I Celtiberi si sciacquano con un’acqua.... Più i denti sono netti, e più Egnatio ne ha bevuto2. Così Catullo si vendica. Archilocho e Hipponacte rivivono in lui, sebbene non sempre egli adoperi i loro metri. Ma la pena non cessa. Prima
- ↑ Pag. 63-65 [LXX], [LXXXVII], [LXXII], [LXXV].
- ↑ Pag. 65 e 66 [XL] e [XXXIX].