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la poesia lirica in roma | 117 |
Catullo rispose: «Io? della mia vita? di quella che amo tanto? Non dar retta a quel sussurrone che hai intorno»1. La pace fu fatta. La gioia che ne provò Catullo, palpita ancora negli otto versi che ne scrisse. Come nella prima dichiarazione, vi si sente l’anima della poetessa di Lesbo. Nessuno è più felice di Catullo2. Pure quando «la sua vita» giura che l’amore sarà mutuo e perpetuo, il poeta si rivolge ai dodici iddii maggiori, domandando che facciano che possa avverarsi ciò che ella promette. Dubita? Un poco, quel poco di dubbio che in ogni grande gioia ci fa domandare se non è sogno3. E i due amanti celebrano il sacrifizio della riconciliazione. È un voto di Lesbia. Ella si era votata a sacrificare i versi d’un «pessimo poeta», di lui, Catullo. Catullo porta la vittima da sostituire a quella che troppo gli premeva: fa apparire la cerva al posto di Iphigenia. Questa vittima suffecta è la carta sudicia d’un poeta Enniano. «O Dea dell’amore e dell’eleganza, accetta questo scioglimento del voto. Annali di Volusio, carta imbrattata, al fuoco!»4.
Lesbia dice cose affettuose e graziose. Certo, certo; ma chi non sa che le donne dicono agl’innamorati ciò che vogliono, non ciò che sentono? E sapienza volgare: in aqua scribere bisogna ciò che dicono. Oltre i proverbi, che sono generali, qualche indizio particolare doveva tenere agitato e sospet-