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la poesia lirica in roma | 115 |
quelle dei vecchi scrittori, così amati da Manlio; ma non ha modo1. Però il suo cuore già ritorna in grado di sentire altre ferite; e il suo dolore non lo occupa tutto, non rende impossibili altri dolori. Egli ha notizie di Lesbia, non buone: ama un altro. E allora scrive un’elegia2 che è la sua cosa più perfetta per l’arte. Vi è il lutto per il fratello, nel bel mezzo, ma prima e dopo, Lesbia, Lesbia per tutto. Ella è la sua luce e la sua vita. Così il poeta ritorna a Roma3.
Quello che egli provasse nei primi giorni, è consegnato in una poesia, che si può definire veramente «la tempesta di un’anima». Dispera e rimpiange; fa proponimento di dimenticare ed evoca tutto il passato gaudioso. Parla a sè stesso, come veramente si vedesse; sè prima prega, a sè poi comanda. È finita Catullo è sano, è libero, è forte. A questo punto si rivolge a lei, ricordando, con domande affrettate, ansiose, amare, tutto l’amor di lei, tutto l’amor suo. È una poesia sentita quanto ben poche delle antiche, vissuta, pianta. Eppure ne trasparisce
- ↑ Pag. 54 [LXVIII]. Il tutto è molto incerto. La mia interpretazione si fonda per gran parte sul leggere, al v. 27, Quare, quod scribis «Veronae turpe, Catulle, Esse, quod hic (cioè ego), qui sit de meliore nota, Frigida deserto tepefactat membra cubili» Id, Manli, non est turpe, magis miserum est.
- ↑ Le elegie e gli epigrammi che riporto qui e stampo con caratteri di corpo più piccolo sono a illustrare i primordi della lirica Romana, nei quali l’elego è strettamente connesso con le altre forme iambiche e meliche. Dopo, se ne libera e si svolge per conto suo. Orazio non scrisse elegi, non ostante che gliene attribuissero. Tibullo non scrisse iambi e odi, sebbene vada sotto il suo nome una sconcia Priapea. Resta l’epigramma, che è elegiaco e d’altri metri.
- ↑ Pag. 57 e pag. 44 [LXVIII]b.