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la poesia lirica in roma | 107 |
che pullulavano, farà così una specie di toxicologia e la manderà al traditore1. I poetastri! erano la disperazione di Catullo. E come li dipinge, come li ha «fissati» per sempre in «Suffenus»2. È forse questo il suo primo poema in coliambi o iambi zoppi. Sono i versi di Mattio, usati anche da Laevio. Ma qual differenza! Catullo non traduce o riduce; non ci fa assistere a scenette, graziose quanto si vuole, ma di agore greche: egli presenta col barcollante verso d’Hipponacte un bel tipo de’ suoi tempi e della sua città, e così vivamente che ci par di conoscerlo anche noi. È un galatuomo e un gentiluomo perfetto, grazioso spiritoso «mondano». Ma fa versi, e come e quanti! Questo vizio, o vogliamo dire malattia, corrompe e nasconde tutte le sue virtù. E non gli basta di farli; li trascrive e li manda attorno. E vedessi che belle «edizioni»!
Suffeno, o Varo, codest’uom che sai bene,
è uom di spirito, uom di garbo, uom di mondo:
ma d’altra parte troppi versi fa; troppi!
Io credo n’abbia scritti dieci e più mila;
nè già, com’usa, in una carta qualunque,
buttati là: no: carta nuova fiammante,
e capi nuovi e cuoio rosso; coperta
a fil di piombo; tutto pari, che lustri.
Tu leggi, ed ecco l’uom di garbo e di mondo
del tuo Suffeno, un villanzone, un capraio
ti pare, un tratto, tanto stuona e si muta.
Che abbiamo a dir che sia? Pareva un caro uomo,
un bello spirito, un.... non so che mi dire;
ebbene è più villano, che il villanume,
appena tocca i versi. Eppure mai, guarda,