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Benchè l’umana superbia sia discesa fino ne’ sepolcri, d’oro e di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando la distinzione de’ luoghi perfino tra’ cadaveri, pure un tratto, non so per quale accidente, s’abbatterono nella medesima sepoltura un nobile ed un poeta, e tennero il seguente ragionamento:

Nobile. Fatt’ in lá, mascalzone!

Poeta. Ell’ha il torto, Eccellenza. Tem’Ella forse che i suoi vermi non l’abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch’e’ vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d’un poeta.

Nobile. Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perchè ardisci tu di starmi cosí fitto alle costole, come tu fai?

Poeta. Signore, s’io stovvi cosí accosto, incolpatene una mia depravazione d’olfatto, per la quale mi sono avvezzo a’ cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate giá piú muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi, che ora vi si raggirano per le intestina! Essi destano effluvi cosí fattamente soavi, che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.

Nobile. Poltrone! tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a’ vermi, egli è perchè in vita ero avvezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.