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se stessa goffa e disadatta, adoperasi anche singolarmente per far ridere gli scioperati con motti, come voi dite, grossolani ed alquanto sciocchi. Ciò potrebbe in parte esser vero, quando voi v’intendeste di parlar dell’uso che ne fa la plebe, la quale, non avendo veruna scienza e coltura, non è da aspettarsi che altro ordinariamente dica nella sua lingua che grossolane e semplici cose; il che non solo nella nostra lingua addiviene, ma eziandio in tutte le altre. Ma, siccome voi colá di coloro parlate, che prendonsi la cura di nobilitare il nostro parlar milanese, e questi altri non essendo che i dotti, come appresso vi mostrerò, sembra che voi questi riprendiate, perché mal uso facciano della lor lingua, impiegandola solamente nel far ridere altrui con motti sciocchi e grossolani. Ma, non essendo questo per ora nel mio argomento, mi contento di avervi di sopra provato, colle vostre parole medesime, che voi senza veruna restrizione avete biasimato la lingua milanese nel primo dialogo; e oltre a ciò lo avete chiaramente autenticato in questo secondo. Solo per maggior conferma di quanto ho di giá provato, aggiugnerò come voi, per piú grave ingiuria verso la nostra lingua (*), intendiate o interpretiate a rovescio un testo del Casa, da voi citato nel secondo dialogo. Il testo dice cosí: «Nella comune usanza favelleremo pure nel nostro [linguaggio] eziandio men buono, piuttosto che nell’altrui migliore. Perciocché piú acconciamente favellerá un lombardo nella sua lingua, quale si è la piú difforme, che egli non parlerá toscano o d’altro linguaggio», ecc. Voi credete, o piuttosto volete far credere altrui, che il Casa abbia detto, in questo passo del suo Galateo , che la lingua lombarda sia la piú difforme d’ogni altra, spiegando quel «quale» come nome semplicemente relativo alla lingua lombarda, di cui si parla nel testo; come si vede da queste parole, che voi subito soggiugnete: «Pare che l’autoritá del Casa dia un colpo al cerchio cd uno alla botte. Piacerá a’ difenditori del volgar linguaggio milanese l’insegnamento di favellare nella comune usanza la propria lingua, ma non piacerá (I) D. li, p. 21.