Pagina:Parini, Giuseppe – Poesie, Vol. II, 1929 – BEIC 1890705.djvu/405


nota 399


tato ai Trasformati «forse suirargomento L’osteria». Il titolo «Il lauro» è in II 5 e 8. L’unica variante notevole ci è data dai mss. III 3, 7 e io, i quali, dopo il v. 60, continuano nel modo se guente (riferisco la lezione di III 3, dalla quale ben poco differiscono quelle degli altri due mss.):

     Non per questo però d’ira t’accendi,
o figlio di Latona,
ch’è lo sfregio minor che siasi mai
fatto alla tua corona;
se tu m’ascolti, io dirò peggio assai.
Dafne che tanta forza
aggiunse al piede snello,
per vergine fuggir dalle tue mani,
poiché mutò la scorza
e mascherossi in lauro,
è divenuta donna di bordello,
e per argento ed auro,
nova Semiramisse, ai piú villani
animali si dona.
Febo, deh mel perdona!
Quanti, o quanti dappochi
vidi agli elei e vidi ai pizi giochi
aver cogli altrui versi il primo ónor
dai giudici dell’arte,
e vidi il vero autor
sorridere in disparte!
E Roma a chi diè ’l lauro?
Colui fu coronato,
che avea dall’Indo al Mauro
sparso piú sangue e piú l’altrui rubbato.
Quanti ebbero l’alloro
seguaci del tuo figlio,
a cui non pende invan la barba d’oro,
ch’era miglior consiglio,
piú che a que’ medicastri,
dare all’infermo il trionfale onore,
che nudo combattè co’ loro empiastri,
e restò vincitore!
Quanti... — Seguia Silen; ma non potè
Febo tenersi piú;
il lauro strappò giú
dal crine, e disse: — Or che si infame se’,
io non ti stimo un fico.