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302 | sonetti |
CXIII
TEMI DATI AD UN IMPROVVISATORE
2. — L’estro.
Qual cagion, qual virtú, qual foco innato,
signore, è quel che la tua mente accende,
quando ogni cor dai versi tuoi beato,
da’ labbri tuoi meravigliando pende?
È spirito? è materia? è Dio, che scende
l’una e l’altro agitando oltre l’usato?
Come l’estro in te nasce? e come stende
in noi sue forze imperioso e grato?
Tu l’arcano ch’io cerco esponi al giorno:
e mentre il ver da le tue labbra espresso
splenda di grazie e di bellezze adorno,
crederò di veder, lungo il Permesso,
fra il coro de le Muse accolte intorno,
parlar de le sue doti Apollo istesso.
CXIV
2. — Il lamento di Orfeo.
Qual fra quest’enne, inculte, orride rupi
che han di nevi e di ghiaccio eterno manto,
echeggiando per entro a gli antri cupi
s’ode accostar melodioso pianto?
Ah ti conosco al volto, al plettro, al canto,
giovin di Tracia, che il bel core occupi
sol di tua doglia; e d’ammansare hai vanto
gli uomini atroci e gli stessi orsi e i lupi.
Deh un momento ti arresta; e il caro oggetto
come perdesti, e gl’infortuni tui
canta; e ne inonda di pietade il petto.
Qui baccanti non son; ma ninfe, a cui
l’alma è gentile, e piú d’ogni altro affetto
è dolce il palpitare a i casi altrui.