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v - la maschera 137


     Io non voglio però ch’altri si creda
65ch’ei d’animale ognor vestisse a foggia,
qual par che dappertutto oggi si veda.
     Ser Giove avea de’ bei trovati a moggia.
Forse falso parrá quel eli’ io vi narro;
ma egli un di si mascherò da pioggia.
     70Di pioggia d’oro ei fecesi un tabarro.
Questo vestito mal si potria dire
quanto sembrasse altrui novo e bizzarro.
     Bastivi ’l dir che la figlia d’un sire,
Danae nominata, il vide appena,
75che se ne volle anch’essa ricoprire.
     Mal fu per un che, mentre si dimena
astratto per comporre una canzone,
fecevi un sette a punto ne la schiena.
     Per che Giove gli disse: — O mascalzone,
80non vedi tu che fai? Or ora impara
a starti un po’ lontan dalle persone.
     Poiché tu guasto m’hai cosa si cara
ad ogni donna, a voi, vati dappoco,
sia sempre la fortuna d’oro avara:
     85e se per caso ne avanzaste un poco
con istento e sudor, venga e vel toglia
la crapula, l’amore, i ladri o il gioco. —
     Né la reina Giano ebbe men voglia
di quella che s’avesse il suo marito
90di mascherarsi con diversa spoglia.
     Ella comparve un giorno a un convito:
e certe nuvolette trasparenti
avevanle formato un bel vestito.
     Colla forza de’ suoi raggi lucenti
95il sol questo bel drappo avea formato;
e sartor n’era stato il dio de’ venti.
     Il quale abito altrui tanto fu grato
che fu per farle un atto indegno e crudo
un certo che Issione era chiamato.