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A VENI MENTO XXVII

Polidamante, combattendo contra l’essercito di Xerse, è ferito in una coscia di una lancia; e, intesa la rotta di Xerse, lietamente si muore.

Aveva giá messer Emilio al suo ragionamento fatto fine, e il forte e generoso animo di Rutilio molto da tutti era stato commendato, quando, messer Fabio imponendo a messer Ercole la sua volta, ed egli lietamente dispostosi a dire, cominciò cosi :

Mirabile fu senza alcun fallo la fortezza dell’animo di Rutilio e da essere celebrata dignissima; percioché si può affermare lui essere stato forte dadovero, essendoché l’uomo per qualunque opera non riceve il nome di «forte»: conciosiaché non sará forte colui, il quale, attendendo di essere battuto, stará senza diffidenza; ma l’uomo forte d’intorno alle cose terribili si ravolge, e piú d’intorno alle maggiori. E si sa che la morte oltre tutte le altre è la piú orribile, percioché 6 la ultima ora della vita. Ma non intorno ad ogni maniera di morte chiameremo un uomo «forte»: non giá intorno a quella che si corre nel mare, o che ci avviene per infermitá, sará la fortezza vera. D’intorno a quale adunque? D’intorno a quella che è la piú bella e la piú onorata; e cotale è quella morte che nella guerra si sostiene, percioché quella ci aggiugne in un grandissimo e fortissimo pericolo: conciosiacosaché per questa cagione dalle cittá e dai prencipi agli uomini forti si rendano sommi onori, e di questi serbino gli scrittori memoria eterna. Adunque propriamente quel l’uomo «forte» si potrá nominare, che non paventerá cosi onesta e valorosa morte, e tutte quelle cose ancora, che all’improviso avvengono e loro quella apportano. Percioché il morire altrimenti non è fortezza, ma quella è bella e onorevole morte, che si fa virilmente e in cui un prode uomo può il valor suo dimostrare e le forze. Non potremo noi adunque meritamente chiamar «forte» lo invitto Rutilio? il quale non pur combattè virilmente co’ nimici, fino che