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AVENIMENTO XXVI


Rutilio romano, essendogli nella rotta a Canne state tagliate ambe le mani, con uno de’ cartaginesi, che spogliarlo voleva, azzuffatosi, gli strappò co’ denti il naso e amendue le orecchie, e poi cadde morto.

Grave e noioso paruto era a tutti i giovani il caso di Giovanni, e con grandissima maraviglia ascoltato l’avevano, dicendo ciascun di loro che giamai sentito non s’era una si strana e si nuova maniera d’ingratitudine; empio e feroce chiamando l’animo di colui che si volesse della uccisione contaminare di chi gli avea la vita campata, e bruttarsi di quel sangue le mani che avea col suo cotanto merito. Donde affermavano potersi comprendere quanto sia possente fiera l’avarizia, quanto crudele, che, trasportato l’uomo da quella, niuno ufficio è cosi santo, che egli non soglia diminuire e violare; come è acuto e atroce il suo dente, il quale, ogni cittá, ogni casa, ogni tempio guastando, non gli può, dove si vada, né copioso essercito né grosse mura far riparo; si come ancora, entrando in una ben disposta mente, quella conturba si, che. malgrado d’ogni leale e buon proponimento, convien che l’uomo ad ogni vile impresa e malvagia opera trabocchi. O cupidigia infinita, alla quale non potettero sodisfare le grandi proferte e le larghe promesse di Giovanni ! Non si rimosse giá questi dal suo diliberato pensiero, da costei guidato; né la compassione del padre, de! fratello, dei figliuoli e della moglie di Giovanni lo rivocò a piú sano e umano consiglio. Cieca è dunque l’avarizia veramente, percioché quegli che da lei si lascia abbagliare gli occhi dello ’ntelletto, senza rimedio alcuno è ne’ suoi propri danni precipitato. Con cotali parole erano biasimati da tutta la brigata gli effetti della ingorda e importuna avarizia, quando, doppo che i giovani, da giusto sdegno contra di quella traviati alquanto, racchetati furono, messer Fabio, verso messer Emilio guardando, disse: — A voi viene ora, messer Emilio, il dover