Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/284

Valorosi signori, mentre ch’io stava intento alle belle lode, che davate tutti alle molte virtú che unitamente in un solo atto d’un re avete comprese, mi è tornato innanzi la notabile e severa giustizia di un famoso prencipe verso il suo figliuolo, non giá verso uno straniere usata. La quale, percioché aviso che deggia essere assai bella materia da ragionare, non mi pare di doverla lasciare da canto.

Timoleone corintio, prencipe illustre, di giustizia e d’ogni virtú ornato, ebbe infra gli altri un figliuolo nominato Eraclio, il quale per paterna ereditá doveva a lui nel regno succedere. Onde, essendo il figliuolo ornai giunto alla etá dei vent’anni, avenne, secondo lo universale costume de’ giovani, che egli ardentissimamente d’una figliuola di un cittadino de’ primi della cittá s’innamorò, chiamata per nome Eufemia. E, ardendo fieramente dell’amore di lei, e ciò per molti e manifesti segni avendole piú volte mostrato, né da Eufemia potendo ricevere pur uno amorevole sguardo, si mise per piú ambasciate a sollecitarla. Ma quella, essendo onestissima e dal debito freno della vergogna ritenuta, sempre lui ricusava per amante. E, non cessando perciò Eraclio tuttavia di molestarla, ed essa fuggendolo, si dispose il giovane, vedendosi nel suo amore infelicissimo, di tentare, poiché di parlarle non gli era concesso, se per mezo di una affettuosa lettera potesse l’amore di Eufemia conseguire; la quale di questa maniera scritta a lei mandò:

«Posciaché le divine e oltre ad ogni estimazione maravigliose bellezze vostre, valorosa giovane, le quali la natura formò per dimostrare a noi quanto potea, mi entrarono col lume loro nel core, credo voi ne’ primi giorni esservi accorta di che maniera quello preso restasse, e come di lui affatto rimaneste donna. Ma, avendo voi altera la mente e di animo una rigida durezza portando, tutti i messi e le ambasciate, le quali l’amor mio incomparabile vi annunziavano, rifiutaste crudele. E, vedendomi finalmente trarre dal cor profondo infiniti e angosciosi sospiri, per ciò nulla pietá del mio male vi strinse; anzi, fatta d’ogni mercé rubella, ora mi contendete quei raggi de’ bei vostri occhi, quei raggi, che, con la virtú del loro splendore dentro di me