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navigando si mette, non sia in un medesimo punto doloroso e allegro, e che in un istesso tempo non pianga e non rida, non ardisca e non pavente, e che spesse fiate senza alcuna cagione avere non impallidisca, e in fuoco e ’n gelo tremando non meni una varia e faticosa vita: e niuna maraviglia è che costui sia da infinite angosce e punture di animo trafitto e lacerato insino al vivo e che, con la lingua tacendo, parli altamente col cuore e che, diversi e molti mali provando, ad ogni oggetto soggiacendo di ciascuna turbazione d’animo, dia in sé continuamente luogo a due contrari. Ma, lamentandosi tuttodí coloro che in questo furore caduti sono e che cosi strema condizione di vita provano, chi di cotanti mali si può dire che sia la cagione? Non è egli Piiorno istesso, che, trascorrendo nel poco regolato appetito e per mezo della sua libera volontá rinforzando la irragionevole parte dell’animo col soverchio disio, sente le pungenti spine di questo insano furore che lo stimolano? Perché da un temperato desiderio, che leggermente s’acqueta e si contenta, non si sentono cotali afflizioni, non si odono questi duri lamenti, non si sfogano gli angosciosi sospiri e non escono, da chi regolatamente ama, le dolorose lagrime. Questo furore, questa pazzia è da soverchia lascivia generata, e quinci da stoltissimi e vani pensieri nodrita, la quale, crescendo poscia in infinito, la mente umana dello stato migliore discaccia, e, velando gli occhi dello intelletto, l’uomo cieco e alla rovina propria strabochevole rende; nulla essendo da per sé veramente, ma da qualunque disordinato appetito quel nome traendo, che dall’ingorda voglia che ci trasporta gli viene imposto, quando «fuoco», quando «disio» chiamandolo. Di maniera che non amore, ma questo furore è l’ésca e ’l solfo, che con empia dolcezza versa nei petti nostri le fiamme. Peroché da amore e al mondo e all’uomo ogni bene, ogni utile, ogni contento deriva. Ma, perché il ragionare di cotal materia e di si grave e alto soggetto, come sarebbe il dire le lode di amore, non è certamente peso dalle mie braccia, né si conface al basso e debole ingegno mio, che bene le sue forze stima e misura, convenevole cosa è il tacerle. E, poiché con alte ragioni e profonde quistioni, piú a’ filosofanti