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XCVIII.
ALLA STESSA
a Forlì
7 Maggio (1847)
Cara Marianna,
Al giungere di questa mia, anche prima di leggerla comprenderai da quale sciagura sia stata colpita la mia famiglia. Era lungo tempo ch’essa ne minacciava, e noi non ci volevamo credere, finalmente, il giorno trenta di aprile fu l’ultimo dei giorni pel povero mio Padre e il primo del nostro eterno condoglio. Egli ha fatto una morte da santo, ha coronato Iddio con una fine tranquillissima la sua virtuosissima vita, e ha infuso in noi piangenti e desolati il conforto di credere quel caro defunto giunto già in cielo. Ma ciò non basta ad asciugare le nostre lagrime, a riempiere quel vuoto tremendo che l’assenza di lui ne fa scorgere ad ogni istante: noi porteremo il duolo di questa perdita per tutta la vita che ne rimane, fosse anche lunga come quella di Noè. Il suo male è stato un idrope generale; idrope che ha resistito ad ogni medicina, ad ogni sforzo dell’arte, di quell’arte vanissima atta solo a illudere i mortali. Quando ha veduto prossimo il suo fine, e se ne avvedeva più dalle lagrime nostre che dal male istesso, ci ha chiamati d’intorno, ci