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Quanto mi faccian pena i tuoi racconti non te lo so dire, io fremeva di rabbia per l’indegno procedere del signor maestro, non so cosa avrei dato perchè l’amica mia non avesse avuto l’umiliazione di non trovarsi amata come si merita di esserlo, umiliazione tanto più indegna, quanto menò degno di lei era colui cui essa avea rivolto il suo affetto, ed io avrei voluto che tu mi raccontassi che non l’avevi voluto più vedere, che in presenza sua e senza leggerlo avevi gittato al fuoco il suo biglietto, avrei voluto che nel montare in legno non gli avessi stretta la mano, tutto questo io avrei voluto sentire. E mi è piaciuta assai la tua risposta alla sciocca ed insolente e temeraria sua domanda, quando egli voleva da te una parola di compatimento, di stima.
Oh tu gli hai risposto bene, ma come sono temerari questi uomini! dopo di avere ingannato colle loro melate artificiose parole un cuore cui facevan credere di non palpitare che per lui, dopo di avere noi esaurite tutte le facoltà dell’anima nostra nell’amarli, dopo di averne riempiute delle più care speranze, ne riempono di dolore e di angoscia — e poi vengono a dirci — compatitemi! stimatemi! Oh non vi son parole che valgano ad esprimer tutto il disprezzo che ne inspira questa orribile condotta. Ma tu sei troppo buona, Marianna mia, sei troppo confidente; il tuo cuore è troppo sensibile, e si affeziona con troppa rapidità, e poi soffri, soffri, e piangi quando invece le tue lagrime dovrebbero inaridirsi al fuoco del disprezzo, quando la cognizione di te stessa, dell’angelica tua bontà, delle tante tue virtù, ti dovrebbero preser-