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vi. - Kara-kiri | 43 |
potei più scompagnare da quella cosa innebriante che è la giovinezza.
Poi ella si diede all’arte drammàtica; reginetta di palcoscènico; giacchè era pur destino che ella finisse regina di qualche cosa: io diventai travet, e poi andai a far kara-kiri altrove.
Ma confessiàmoci senza vergogna: quante volte di poi, fra la gente, cercai quel pìccolo volto stellante ed il cuore balzò ogni volta che scoprii un nasetto all’insù fra due occhi tondi, che rassomigliàssero a lei. Quante volte mi aggirai per le tue vie più vècchie, o Bologna; e nel lamento dei tuoi organetti, nella fisonomia dei tuoi pòrtici, nel suono del tuo dialetto, cercai l’ombra di un sogno. Ohimè, le tue torri èrano diventate tutte grige, non c’èrano più gonfaloni; il tuo dialetto già così soave al mio cuore, mi suonava come uno sguaiato dialetto; i tuoi orbini che suonàno gli organetti, èrano lùridi; le tue pastine dolci (una cosa che Mimì accettava) sapèvano al mio palato di melassa e di stucchèvole vanìglia, come quel gelato della sera prima.
«Tuttavia converrà andare — pensavo — , giacchè ho promesso. Ma quale