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28 | viàggio d’un pòvero letterato |
qualche luogo, fuori da quella luce accecante, da quella vibrazione fresca e incresciosa di azzurro. Una contradizione quella luce e quella frescura! Io non appartengo alla spècie della gente villeggiante, e quegli ingressi di alberghi inverniciati coi portieri inverniciati, che attèndono i villeggianti, mi ripugnàvano. Cercai nelle vie interne della vècchia Asiago qualche rifùgio più confacente ai miei gusti. Un alberghetto semideserto, con grosse tovàglie di bucato, pareti di legno, mi offrì più che non cercavo: stanza di luce opaca, un brodo, uno spezzatino di vitello.
— Con tegoline?
Oh, cara parola veneziana, che mi ricorda la giovinezza!
— Sì. Tegoline e vino bianco di Soave, squisitamente soave. Ma non parlate voi — domandai — cimbro o tedesco?
— Una volta! Ora tutti si parla veneto.
Come si beve bene nei paesi degli ùltimi confini del vino, di contro ai paesi della fredda birra! Mi sembrò cosa patriòttica bere molto vino. Domandai notìzie del mio compagno di collègio, Gherardo. La sua famìglia era ragguardèvole e ben nota lassù, ma lui era morto.