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straniera, conti e contesse, nonchè una superba colònia ungherese.

La stazione di Rìmini dava in quel mattino l’idea di Ostenda.

Era tutto un susurrare ossequioso: «Signor conte, signora contessa, signora marchesa, signor commendatore»; era un servizièvole portare di valigette e spolverine; cagnolini, sotto il bràccio delle dame; fiori freschi delle dame; bambini delle dame.

C’era anche quella bandierina infissa sull’elmo; ma nessuno badava a lei.

«Signor conte, signora contessa!» Fuori della stazione rombàvano le automòbili dei signori conti e delle signore contesse. Gli automedonti gridàvano: Grand hôtel, Palace-hôtel, Hôtel Hungària.

Un signore ben pasciuto, ben rasato, con un suo bel naso adunco, un bel trabucos fra le grosse labbra, ragionava con accento forestiero suasivamente con un omarino, di exploitation di terreni, di grandi hôtels, di Kursaal: e l’omarino, in udire, trepidava per la ingordìgia.

Un giovanotto, grosso e ròseo come un prosciutto tedesco, con una barbetta ricciolina, con un collare bianco alla Ro-